L’annuncio della Risurrezione

La risurrezione di Cristo, evento base del cristianesimo, è affrontato dal gruppo della catechista Luisa con lo stimolo di un’originale copertina.

 

Una situazione sconvolgente

La catechista Luisa presenta i protagonisti in quei giorni unici. Gesù, che sentiva la morte vicina ma era certo della risurrezione; i discepoli, che non riuscivano a immaginare cosa volesse dire.

«Non era difficile. Come il sole, Gesù “ri-sorge”». Per Federica è ovvio!

«Sì, ma capita tutti i giorni. Gesù è ri-sorto una volta sola!», ragiona Fulvia.

«E com’è successo? Si è alzato in volo?». Anche Tony ha bisogno di immaginare.

«Non lo sappiamo. Non c’erano le telecamere… – scherza Luisa. I Vangeli dicono che alcune donne sono andate alla sua tomba, prima dell’alba».

«Anch’io vado a trovare mia nonna-bis al cimitero e dico una preghiera per lei», confida Sonia.

«Che brava! Ma pensa se, arrivata là, trovassi la lapide spostata. Saresti sconvolta. Così loro si sono spaventate! Ma i Vangeli ci parlano di angeli “in bianche vesti” che annunciano che è vivo».

 

Una materna figura angelica

Luisa tira fuori la copertina e indica Maria di Magdala e l’angelo.

«Ma… è una donna?!». Parla Gianni, ma lo stupore è di molti.

«Il pittore ha usato un po’ di fantasia. L’angelo è una creatura del mondo di Dio, puro spirito. Le sue sembianze possono essere varie. Questo portava un messaggio quasi materno: “Non abbiate paura!”.

La spiegazione di Luisa sembra convincente e Luca sposta l’attenzione su un altro particolare.

«Cos’è quella cosa che vola?»

«Sembra un lenzuolo, forse quello in cui era stato avvolto Gesù. Che ora non gli serviva più».

«Perché non è per terra?», si chiede Claudia.

«Il pittore voleva rappresentare il vento, che nella Bibbia è segno della presenza di Dio. È lui ad aver ridato la vita a Gesù».

 

Vedere per credere?

«Maria però sembra triste…», nota Veronica.

«Già, forse non è ancora convinta. Le sembra una cosa troppo strana e bella per essere vera. Per questo l’angelo la guarda negli occhi e le tende la mano: credici, sembra dirle. Ma lei vorrebbe vedere Gesù. Sarebbe più facile».

«Ma poi l’ha visto, vero?». A Giulia non sfugge nulla.

«Sì, i Vangeli raccontano che Maria di Magdala fu la prima. Poi gli apostoli, altri discepoli. San Paolo racconta che una volta lo videro 500 persone insieme. Ma lui no. Eppure ha dato la vita per Gesù. Credeva in Dio, credeva nelle parole di Gesù, credeva nella testimonianza degli altri».

 

La fede nel Paradiso

«A me sembra impossibile. Un morto è morto. Finito. Game over». Filippo è sincero.

«Io invece penso non sia così», confida Erika.

«La maestra di religione dice che siamo come bruchi che in Paradiso diventeranno farfalle. Mi piace!». È il parere di Gianni.

«La vita è un grande dono. Ci divertiamo, impariamo, lavoriamo, amiamo… ma qualche volta fatichiamo, sbagliamo, soffriamo. A un certo punto il nostro corpo dice stop. Non ce la fa più. Come per Gesù, anche per noi Dio ha in serbo qualcos’altro. Una vita nuova, di una bellezza che non possiamo immaginare».

«Sarà così anche per mia nonna bis?», chiede Sonia speranzosa.

«Se ha avuto fede e amore, Dio l’ha accolta e trasformata nel modo più bello che lui conosce. E ora, sono certa, dal Paradiso è lei a pregare per te».

 

PER L’APPROFONDIMENTO

• Gli angeli nella Bibbia sono i messaggeri di Dio. Quanto tempo e considerazione dedichiamo alle sue parole, nella vita quotidiana?

• La speranza è la virtù «per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità» (CCC 1817). Pensiamo mai alla meta del Paradiso? Abbiamo fiducia nella risurrezione? Ci impegniamo per costruire il Regno di Dio?

 

PIERFORTUNATO RAIMONDO

 

Nella foto: Una vita nuova, di grande bellezza, è possibile.

Un’alleanza educativa

Nel contesto del Sinodo sulla famiglia, ci chiediamo come rendere le famiglie più consapevoli del loro ruolo educativo e come coinvolgerli anche nei progetti di iniziazione cristiana dei figli.

Condizioni poco favorevoli

□ Mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, ha scritto a tutte le famiglie della diocesi. Si domanda: «È possibile oggi proporre a una famiglia di assumersi tante responsabilità educative?». «Non è facile», risponde. Soprattutto «se pensiamo alle fatiche che tante famiglie sostengono per sopravvivere alle difficili condizioni del momento, sia sul piano economico che sociale». E precisa che oggi in particolare molte famiglie vivono situazioni di divisione al proprio interno e difficoltà sul piano religioso e morale. «Credo tuttavia che in ogni famiglia non manchi la consapevolezza della propria responsabilità educativa, sostenuta anche dagli anziani, che oggi svolgono un compito molto importante e spesso decisivo».

□ La famiglia tuttavia, auspica mons. Nosiglia, non deve trovarsi sola nell’affrontare tutti questi problemi, ma sentire forte il sostegno sia da parte della Chiesa che della società.

Ritorno all’oratorio

□ Prosegue l’arcivescovo: «In diverse parrocchie si sta tornando a valorizzare l’oratorio, anche se ampiamente rinnovato e con forme e modalità aperte a proposte diversificate». E si domanda: «È possibile oggi ripensarlo per farne un luogo di incontro e di amicizia, ricco di iniziative interessanti per i valori che offre e aperto a chiunque − piccoli, ragazzi e giovani – desideri di partecipare?». «Credo di sì», risponde, «se gli adulti per primi sanno farsene carico offrendo la propria presenza, competenza e supporto organizzativo».

□ Ma per realizzare questa bella esperienza occorre raggiungere un buon livello di collaborazione tra tutti, superando l’abitudine di andare in ordine sparso: «L’amore ai ragazzi, ai giovani e al loro futuro è troppo importante per non cercare vie di collaborazione, superando chiusure di parte e cooperando insieme per raggiungere lo stesso traguardo».

I 200 anni di Don Bosco

□ In questo contesto mons. Nosiglia si richiama al giubileo dei 200 anni della nascita di san Giovanni Bosco, che abbiamo celebrato il 16 agosto 2015. E dice: «Don Bosco è stato un grande educatore dei ragazzi e giovani e rappresenta ancora oggi un modello esemplare di quel metodo preventivo con cui ha promosso tutta la sua azione educativa. Egli diceva che “educare è una questione di cuore” e quindi uno scambio di amore tra adulti e giovani, in primo luogo proprio in famiglia, dove si impara ad amarsi giorno per giorno con pazienza, responsabilità e speranza».

□ Infine mons. Nosiglia invita genitori ed educatori a porsi sempre queste due domande: «Signore che cosa vuoi che io faccia? Che cosa vuoi da me genitore ed educatore per rispondere al disegno che hai su questo figlio, alunno, amico? Cosa devo fare, o non fare, per accogliere il tuo volere che corrisponde al suo vero bene?».

UMBERTO DE VANNA

Quella fuga in Egitto

La sofferenza familiare di un ragazzo del gruppo suggerisce di trattare il complesso tema del dolore, condiviso dallo stesso bambino Gesù. La nostra copertina viene in aiuto alla catechista Luisa.

Piccoli grandi disagi

Francesca e Chiara oggi attendono Luisa preoccupate. Le raccontano del fratellino di Raffaella, che è stato ricoverato in ospedale. Luisa è dispiaciuta, cerca di consolarle, ma si accorge che le sue parole non bastano a sconfiggere la loro tristezza, che nel frattempo si dilata a macchia d’olio nel gruppo. Luisa non si scoraggia e si affida all’immagine di copertina.

«Che effetto vi fa?», chiede.

«È triste. Non sembra un bel momento», risponde Chiara.

«Ma che razza di strada devono fare? Tra le rocce? Senza attrezzatura?», nota Tony, che va spesso col papà in montagna.

«La donna sta tenendo un bambino piccolo, in fasce. Poverino». Elisa è molto sensibile.

«Ma allora saranno Maria e Giuseppe. È la fuga in Egitto!». E brava Francy!

«Non potevano stare a casa loro?». La domanda di Alex non è così stupida. Meglio spiegare.

Senza nessuna colpa

«Vi ricordate che Gesù è nato a Betlemme, a circa 150 km dalla casa di Giuseppe e di Maria, a Nazareth? Ma il re Erode aveva sentito dire che un neonato sarebbe diventato il nuovo re e, non avendolo trovato, ha fatto uccidere tanti bambini innocenti».

«Ma non è giusto. Non glielo potevano impedire?», riflette Giulia.

«Lui aveva il potere di vita e di morte. È brutto, ma è la realtà».

«Fuiii… Meno male che oggi non è così», sospira Luca.

«Già. Noi siamo molto fortunati, anche rispetto ad altre parti del mondo…». Luisa allarga gli orizzonti.

Dio è con noi

«E come hanno fatto a salvarsi?», chiede Gianni.

«Il Vangelo ci dice che Giuseppe ha fatto un sogno. Era la voce di Dio che gli suggeriva di partire».

«Io non ho mai sognato Dio», confessa Francesca.

«Nella Bibbia, Dio parla attraverso i profeti, ma anche dentro alle persone. Come quando abbiamo un’intuizione, e poi scopriamo che era proprio giusta. “Mi sa che oggi la maestra m’interroga…”, penso. E se ho studiato, sono pronta. Come fu pronto il papà di Gesù!».

«Ma in Egitto avevano dei parenti? Degli amici?». Filippo si preoccupa!

«Probabilmente no. Contavano su di sé e sulla loro fede. E sul mestiere di Giuseppe, che era un buon artigiano. Ed erano convinti che Dio non li avrebbe abbandonati».

«Come facevano con i bagagli? Glieli spedivano?». Alex è un pratico.

«Quelle due sacche erano tutto ciò che avevano», dice Luisa, e lascia tutti senza parole.

Insieme per sperare

«Capite perché lo sguardo Giuseppe è corrucciato? Sarà dura prendersi cura del bimbo e della sua sposa. Eppure Maria sembra riposare, nonostante le scomodità. Ha accettato la vita così com’è. Il dolore passerà, perché Dio è con loro e quel Figlio sarà un tesoro per l’umanità».

«Un tesoro, però anche uno sf…ortunato!». Filippo è diretto, ma ha ragione.

«Certo. Per questo ora può capirci, nelle sofferenze e nelle fatiche. E ci dice: “Coraggio, ci sono tempi duri, ma non saranno eterni”».

«E se hai la famiglia attorno, hai tutto», conclude Luca. Già. Non siamo mai soli ad affrontare il dolore. E lì sta la nostra speranza.

 

PER L’APPROFONDIMENTO

• La vita di Gesù, dalla nascita alla croce, non è sempre stata facile. Su quali rocce ha costruito la sua speranza? Chi lo ha aiutato a superare disagi e fatiche?

• «È il modo in cui affronti il dolore a fare di te un grande». Siete d’accordo? Trovate degli esempi di chi non si è scoraggiato nonostante una grave perdita.

• Chi sono i fuggitivi di oggi, costretti a migrare in un paese straniero? È giusto aiutarli? Cosa farebbe Gesù?

 

PIERFORTUNATO RAIMONDO

Il primo incontro… e gli altri

L’anno catechistico appena trascorso ci ha fatto vivere una bella esperienza, ma probabilmente ci ha anche lasciato un po’ di amaro in bocca per qualcosa che poteva riuscire meglio. Come inizieremo l’anno nuovo? Accogliamo felici questa nuova avventura, raccogliamo con gioia la sfida di incontrare nuovamente i ragazzi.    

 

Un nuovo anno catechistico

□ Ci risiamo, tra pochissimo incomincia un nuovo anno catechistico! Probabilmente ci siamo già incontrati con il parroco e con il coordinatore della catechesi. Forse c’è stata anche una prima riunione per orientarci bene sin dall’inizio. Ma se non fosse stata organizzata, è tempo di tenere questa riunione al più presto, prima che comincino gli incontri con i ragazzi.

□ I ragazzi ci stanno aspettando ed è normale che abbiamo un po’ paura di incontrarli e di cominciare. Non preoccupiamoci più del dovuto. Gli altri catechisti nelle stanze vicine vivranno più o meno la nostra stessa esperienza.

 

Buongiorno!

□ «Buongiorno, ragazzi!». Sono queste di sicuro le prime parole che dovremo dire. Con la bocca e con il cuore. Sono le parole usate ogni volta da papa Francesco e fanno capire subito che li stavamo aspettando con gioia, che ci fa piacere incontrarli. Sorrisi, strette di mano e – un po’ più tardi, prima di lasciarci ─ bacetti per tutti e per ciascuno.

□ Avremo certamente ricevuto l’elenco dei ragazzi con i loro nomi. Molti di loro probabilmente li conosciamo già; dei nuovi faremo presto la conoscenza. Può darsi che dopo i mesi estivi si siano dimenticati i nomi dei compagni e potremmo lanciare un gioco per rinfrescare la loro memoria (cf Dossier Catechista, settembre 2016, pag. 56).

 

La preparazione

Quando sarà il giorno, arriviamo nella sala dell’incontro un po’ prima per renderci conto di tutto e per valorizzare al meglio l’ambiente. Cambiamo l’aria, controlliamo la luminosità e che ci siano posti a sedere per tutti, un tavolo da lavoro. Il modo migliore di sistemarci, ovunque ci troviamo, è sempre metterci tutti attorno a un tavolo. Potremo comunque cambiare disposizione se ce ne sarà bisogno: per vedere un video, per parlarsi tra di loro, per cantare, per pregare o per altre attività. L’unica disposizione sempre da evitare è quella di tipo scolastico, con l’insegnante che parla e gli altri, fermi ai loro posti, che ascoltano.

□ Mettiamo alle pareti dei bei poster, che diano subito l’idea di essere entrati nel mondo della catechesi e in una dimensione ecclesiale e amichevole. Dossier Catechista ne ha pubblicati tanti in questi anni.

□ In un angolo in bella vista ci sia una copia della Bibbia. Accanto, un fiore, una candela, qualche oggetto simbolico.

 

L’atmosfera

□ Una delle cose che più contribuiranno al buon andamento dell’incontro è il clima di serenità che riusciremo a creare.

□ Una voce tranquilla e il nostro volto sereno e disteso faranno sbollire una certa eccitazione e favoriranno l’attenzione dei ragazzi. Chiederemo a loro di parlare uno per volta, con calma, disponibili ad ascoltare gli altri.

 

Struttura di ogni incontro

□ Bisogna metterlo sul conto, i ragazzi fanno sempre molta fatica a rimanere concentrati a lungo. Dobbiamo dividere il tempo dell’incontro in tre o quattro parti. Ormai lo sappiamo, i ragazzi ricordano solo il 10% di ciò che ascoltano, mentre ricordano il 70% di ciò che ricercano personalmente e li coinvolge direttamente. Bisogna evitare i lunghi discorsi.

□ Per presentare il tema basteranno poche parole, seguiranno un’attività pratica, un momento di preghiera e il dialogo con i ragazzi.

□ Ma ecco come si potrebbe strutturare un incontro di un’ora, un’ora e mezza, in cinque passaggi:

1. Accoglienza e qualche istante di riflessione e di preghiera.

2. Un rapido ripasso di ciò che è stato fatto la volta precedente.

3. La presentazione dell’argomento nuovo e il suo collegamento con i temi trattati precedentemente.

4. Un’attività che aiuti ad approfondire l’argomento del giorno.

5. Il tempo della riflessione conclusiva, personale e di gruppo. Qualcosa di scritto sul quaderno, un canto, la lettura solenne di un brano biblico collegato al tema, una preghiera per concludere.

 

La gestione del gruppo

La catechesi la si vive generalmente in piccoli gruppi, meglio se i ragazzi non sono più di dodici. Ma nelle celebrazioni e nelle attività speciali, può essere coinvolta l’intera comunità dei ragazzi e delle loro famiglie.

□ Ogni gruppo ha un po’ le sue regole, le proprie intese e dinamiche. Dovremo comunicarle e farle rispettare. I ragazzi dovranno essere messi in grado di ricevere tutto ciò che di bello e positivo verrà proposto al gruppo.

□ Ciascuno tuttavia parteciperà secondo il proprio temperamento. Se un ragazzo è timido ed è facilmente bloccato nell’esprimersi, lo potrà fare per iscritto e poi leggere ciò che avrà scritto, o potrà dircelo all’orecchio. Chi è troppo vivace e troppo intraprendente, andrà invitato a fare spazio anche agli altri, a esprimersi con calma e senza agitazione.

 

I programmi e gli imprevisti

□ Ogni ragazzo deve occupare un posto speciale ai nostri occhi. Stiamo attenti alle esigenze di ciascuno. Qualcuno può essere a disagio per qualche motivo che non conosciamo, magari vorrebbe parlarci in privato. Entriamo in dialogo e in confidenza con ciascuno di loro. Rendiamoci disponibili, magari a incontrarli anche al termine dell’incontro.

 

Le domande difficili

□ Fare delle domande è una delle cose più positive di un incontro di catechesi. Quando i ragazzi si interrogano e chiedono spiegazione al catechista significa che sono coinvolti dall’argomento e il catechista dovrebbe sentirsi sinceramente compiaciuto.

□ Nello stesso tempo le domande dei ragazzi sono spesso una delle preoccupazioni principali di noi catechisti. «E se non riesco a rispondere?», pensiamo. Domandiamoci: «Che cosa interessa davvero a questo ragazzo?». Ma anche: «La questione interessa anche gli altri?». Al limite possiamo annotarcela, dire che risponderemo la prossima volta. Forse potremmo intanto chiedere a lui ─ a loro ─ di dire che cosa pensano su questa questione, e capire che cosa vogliono davvero sentirsi rispondere.

 

Al termine dell’incontro

Respiriamo, prendiamo qualche appunto, segniamoci ciò che pensiamo di dire la volta seguente. Sfogliando la nostra Agenda di mese in mese, potremo anche renderci conto del cammino che stiamo proponendo ai nostri ragazzi, a quali mete e a quali progetti di vita li stiamo conducendo.

STEFANO TORRISI

Quando il catechista è un leader

I catechisti, mentre accolgono i ragazzi e gli adulti, devono sentirsi essi stessi accolti con simpatia. Per avere seguito, per riuscire a dare forma al loro gruppo catechistico. Essi trasmettono entusiasmo e fiducia, fanno capire con la loro presenza che tutto andrà bene.

 

Conoscere chi avviciniamo

Sia con i ragazzi che con gli adulti, la prima condizione per esercitare la nostra leadership è quella di conoscere chi abbiamo davanti, capire che cosa desiderano, di che cosa hanno bisogno, quali sono i loro interessi, i loro gusti, che cosa si aspettano dal nostro incontro o dal catechismo. Magari prendere atto della loro stanchezza o addirittura del loro rifiuto e della loro indifferenza.

 

Metterci dalla loro parte

I catechisti incontrano le persone e i ragazzi ed essi hanno l’impressione di essere conosciuti da sempre, personalmente. Stabiliscono un buon rapporto con tutti. Entrano in empatia, quella che li rende capaci di capire il loro stato d’animo, che li fa mettere nei loro panni. Evitando di dare su di loro giudizi negativi in partenza, accostandoli senza prevenzioni, senza chiusure, disponibili a prestare attenzione alle loro attese e ai loro problemi.

 

Chiarezza sugli obiettivi da raggiungere

Se il catechismo viene tante volte accostato al simbolismo del viaggio è perché sarebbe un guaio, se prima di una partenza e di un nuovo inizio il catechista non avesse ben presenti la meta che vuole raggiungere o non conoscesse con chiarezza l’itinerario. Solo così saranno i primi a credere in ciò che propongono, avendo le idee chiare sugli obiettivi da raggiungere, sapendo dove vogliono condurre chi accompagnano.

 

Certezza sui valori da trasmettere

I catechisti sanno di avere qualcosa di vero da «vendere», da proporre. Nessuno più di loro sa quanto i valori del Vangelo possono trasformare una vita, renderla felice e realizzata. Per questo non hanno paura di parlare di sé in termini veri, anche della propria fede. E lo fanno senza imbarazzo e senza mettere in imbarazzo. Lo fanno in tutta spontaneità, con sicurezza e gioia.

 

Dei simpatici e abili comunicatori

Certe qualità sono spesso innate in chi s’impegna in un’attività di animazione o di volontariato. In ogni caso ogni catechista dovrebbe sforzarsi di avere la capacità di coinvolgere e creare appartenenza. Soprattutto dovrebbe creare un bel feeling, un clima di leggerezza e di bellezza, la facilità di sorridere e far sorridere. Lasciando in tutti la sensazione piacevole di vivere insieme una stessa bella esperienza.

UMBERTO DE VANNA

Chi può farsi amare da questi ragazzi?

Ci sono catechisti che hanno una predisposizione naturale verso i ragazzi, che sanno farsi accettare ed accogliere con simpatia, che si presentano convincenti nella conduzione del gruppo. Ma non per tutti è così facile.

Il catechista «dà il tono» al gruppo

□ Il catechista ha fiducia nei suoi ragazzi. Li stimola con leggerezza verso gli obiettivi da raggiungere. Riconosce e valorizza il loro potenziale di energia. Sa che un gruppo di ragazzi è sempre un cantiere aperto in cui tutti sono invitati a partecipare in modo personale.

Ma come farsi accettare da questi ragazzi?

□ In realtà non è così facile farsi accettare dai ragazzi. Che cosa inventare? Quali sono le qualità per riuscire davvero con loro?

□ Tempo fa un’inchiesta Rai elencava le più importanti qualità che ogni educatore dovrebbe possedere per proporsi ai ragazzi d’oggi. Molti di questi atteggiamenti sono applicabili benissimo ai catechisti, ma anche a tutti quelli che si occupano dei ragazzi, e agli stessi genitori.

L’inchiesta Rai

Ecco ciò che emerge dall’inchiesta. La presentiamo per punti, applicandoli esclusivamente al contesto della catechesi.

1. Farli intenerire. Che vuol dire coinvolgerli in modo emotivo con quanto si dice e si racconta. È l’arte del narrare, di cui ogni catechista dovrebbe rendersi esperto.

2. Farli ridere, non essere pesanti. La catechesi non è scuola, lo sanno tutti. Ma ovunque oggi, anche nella scuola, i contenuti vanno presentati in modo leggero, convincente, bello.

3. Non aver paura di usare il proprio mito. Cioè far leva su qualche aspetto della nostra personalità, su una abilità di cui siamo dotati e che può renderci speciali ai loro occhi.

4. Non cercare di sedurre. Vuol dire anche non strumentalizzare i ragazzi per affermare o promuovere in qualche modo noi stessi. Tentazione molto forte per chi scegli magari di fare catechismo per sentirsi importante.

5. Avere qualcosa di vero da «vendere», da proporre. Non c’è dubbio che il catechismo, che ha la sua fonte nel Vangelo, è materiale di qualità. Ma lo si deve far capire, dimostrare. Capiscano quanto è utile e ci rende migliori e più riusciti.

6. Avere il coraggio di parlare di sé. Farlo in termini veri, senza imbarazzo, e senza mettere in imbarazzo. Siamo testimoni, la fede anima la nostra vita, il catechismo è far passare ad altri il fuoco che ci anima dentro.

7. Non avere prevenzioni. A volte siamo armati dentro. Vuol dire avere fiducia nei ragazzi, non pensare che ci siano necessariamente ostili, riconoscere l’originalità e la bellezza personale di ciascuno, il loro bisogno di riuscire e di essere felici.

     Umberto De Vanna

Dio nel volto di un Bambino

Nel Natale di Betlemme Dio si affida agli uomini. Si fida di noi. Si mette nella nostre mani con la fragilità di un bambino.  

 

Umanità di Gesù

□ Betlemme è il primo gesto, la prima scelta del Figlio di Dio di mettersi con i piccoli, con quelli che non contano. Obbedisce a un ordine di Augusto. Nel vero senso della parola, il Figlio di Dio si fa carne. L’espressione greca farsi carne, sarx, non vuol dire soltanto diventare uomo, ma farsi fragile, debole.

□ L’uomo ha bisogno di segni, ha l’esigenza di vedere e di toccare, di ascoltare. Dio rispetta questa nostra esigenza e si mostra in una persona concreta come noi: Gesù è il segno visibile dell’amore invisibile del Padre. «Ciò che appare, allorché Dio si manifesta in persona, è un uomo. Anzi, addirittura un bambino» (Yves Congar).

 

Uomo tra gli uomini

Gesù si fa bambino assumendo fino in fondo la nostra carne mortale, con tutti i rischi del caso. Una nascita nella più estrema povertà, un’infanzia di esule in Egitto, una vita in una famiglia di gente umile. Sceglie per sé una condizione di vita che è quella della maggior parte della gente del suo tempo, nasce e vive tra artigiani e contadini, pescatori e fabbri. Tutto questo lo dice bene Dietrich Bonhoeffer: «Dio si è fatto bambino. Eccolo nella mangiatoia, povero come noi, misero e inerme come noi, un uomo fatto di carne e sangue come noi, nostro fratello. Eppure è Dio, eppure è potenza. Dov’è la divinità, dov’è la potenza di questo bambino? Nell’amore divino in cui si è fatto uguale a noi. La sua miseria nella mangiatoia è la sua potenza. Nella potenza dell’amore supera l’abisso tra Dio e l’uomo».

 

Un gesto di fiducia da parte di Dio

□ Mettendosi bambino nelle mani degli uomini, Dio lo fa a suo rischio. Sin da subito c’è chi cerca, in Erode, di impedirgli di vivere.

□ È bello ciò che scrive a questo riguardo Marina Marcolini, docente di letteratura italiana a Udine. Partendo dalla mancanza di fiducia nei confronti di Dio del primo uomo e della prima donna del racconto della Genesi, ricorda la risposta di Dio, che invece si mette nella mani dell’uomo. Dice: «L’uomo e la donna non si sono fidati di Dio? Ebbene, Dio si fiderà di loro, inventandosi l’incarnazione. Si fiderà a tal punto da consegnarsi nelle loro mani inerme, vulnerabile, bisognoso e incapace di tutto, un bimbetto che piange. Si fida, e la ragazzina dice sì e impara a fare la madre».

    UMBERTO DE VANNA

Accompagnare i figli nella fede

Se parecchi genitori non si curano troppo dell’educazione religiosa dei loro figli, altri appaiono vivamente impegnati e preoccupati di trasmettere delle buone abitudini, comprese le pratiche religiose.

Le cose da non fare

I genitori credenti e praticanti vanno in panne e magari si sentono in colpa quando vedono che i loro figli prendono apertamente le distanze da loro e dalla fede ricevuta da bambini. «Che possiamo fare?», si domandano. Nello stesso tempo stanno accorgendosi di non potere ancora a lungo imporre queste abitudini a dei ragazzi che crescono e non lo vogliono più. Sanno ormai molto bene che l’obbligo viene percepito dai ragazzi come un peso, e che insistendo si rischia di provocare in loro il disgusto e l’abbandono definitivo della pratica cristiana.

Felici della nostra fede

A questi genitori (e catechisti) resta soprattutto, ed è molto, la possibilità di dire con schiettezza ciò che pensano, ciò in cui credono e perché. Presentarsi agli occhi dei figli come cristiani convinti e credibili, soddisfatti e felici della propria fede. Questo è certamente un inizio importante. È ciò che chiamiamo testimonianza. E vale tanto, anche se non è fatto di mille parole e incoraggiamenti.

Una testimonianza nata dalla vita

Ma attenti che questa testimonianza non sappia di costruito e di artificiale, messa in scena in funzione di loro. I ragazzi sono furbissimi. Accettano anche i nostri limiti, ma non la nostra ipocrisia. Il più delle volte infatti non c’è nemmeno bisogno di dire tante parole. La nostra fede nasce dalle scelte di vita, e la trasmettiamo anche solo con gli occhi, col sorriso, con il nostro modo di rapportarci e di accogliere.

Cristiani a modo loro

Alle volte vorremmo che i nostri ragazzi fossero come noi, e nello stesso tempo magari diversi da noi. Comprendiamo che hanno il diritto di essere cristiani a modo loro, quanto più trovano un loro spazio in quella fetta di Chiesa che è la parrocchia.

Spesso di fronte alla fede, se conosciuta e vissuta nel modo giusto, si dimostrano spontaneamente più evangelici, più schietti, più coerenti e genuini di noi.

Che sarà di questi ragazzi?

È la preoccupazione di tutti i genitori consapevoli. Essi li vedono fragili e pieni di sogni fantasiosi, ma anche ricchi di risorse destinate a fiorire. Per questo davanti a loro si manifestano credenti, fiduciosi che anche loro potranno esserlo. Preparano il terreno, portando nel cuore la certezza che anche in loro potrà crescere qualcosa di bello per Dio.

    UMBERTO DE VANNA

12 modi di renderci simpatici

Estate, tempo di aria nuova. Ma la vita cristiana, di un ragazzo o di un adulto, non va sicuramente in vacanza. Non si smette mai di essere cristiano, così come non si smette di essere un amico quando si è in vacanza. Ma un vero cristiano lo si conosce da come parla e da come vive. Anche d’estate.

 

Un «dodecalogo» per l’estate

□ Quelli che seguono sono alcuni suggerimenti che un gruppo di gesuiti spagnoli ha scritto in un’agenda per l’estate destinata ai ragazzi (e non solo) per aiutarli a vivere quello che siamo e ciò in cui crediamo.

□ E, nello stesso tempo, per provare a se stessi quanto ci rende felici e migliori quando ci impegniamo a far felici gli altri.

 

1. Impara il nome delle persone che vivono con te o che incontri spesso. Non c’è niente che piaccia di più alle persone di essere salutate per nome.

2. Scopri i gusti degli altri e assecondali quanto ti è possibile. Si comporta così la gente simpatica e cordiale.

3. Abbi il pallino di fare del bene, cominciando da quelli che ti sembra che se lo meritano di meno. È un pallino che arricchisce prima di tutto chi ha questo pallino.

4. Sorridi, sorridi in ogni momento della tua giornata. Se lo fai con sincerità, sta’ sicuro che ti renderai simpatico.

5. Saluta sempre, quelli che conosci bene, ma anche quelli che conosci appena.

6. Se un tuo amico sta male, vai a trovarlo. D’estate hai tempo.

7. Cerca di capire ciò che i tuoi amici, o quelli della tua famiglia, vogliono e fanno. Come fossi una specie di esploratore curioso.

8. Dimentica al più presto le discussioni e gli scontri. È il modo migliore per non farsi male dentro.

9. D’estate scrivi ai tuoi cari, ai nonni, agli amici, ai professori.

10. Tieni conto dei compleanni e degli onomastici di quelli del tuo giro, e fagli i più begli auguri.

11. Prega. Rimanere a contatto con Gesù è garanzia di riuscita. La Vergine Maria ti è di aiuto.

12. Migliora in qualche tua abilità personale sportiva, musicale, manuale… E se lo fai insieme agli altri, meglio.

 

Che cosa fare di questo «dodecalogo»?

□ Lo si può presentare e commentare ai ragazzi, ai genitori, agli stessi catechisti in vista dell’estate. E lo si può far conoscere via web a quelli della nostra comunità, in modo che le vacanze rendano più vivo ogni incontro, la vita in famiglia, il vivere insieme.

□ A tutti l’augurio di sentire il desiderio di prenderci maggiormente cura di noi e del nostro mondo per renderlo, dove viviamo, più caloroso, più umano e più fraterno.

Umberto De Vanna

Non si può amare qualcuno e non amare il suo mondo

Alcuni ragazzi risultano immediatamente simpatici, perché sono aperti e disponibili, accettano di entrare in dialogo con noi, stanno volentieri con i loro compagni. Altri li sentiamo lontani, sembrano vivere in un mondo diverso dal nostro.

Non rinnegare il loro mondo

□ Nel primo romanzo di Giorgio Ghiotti, 22 anni, vincitore del Campiello giovani, l’io narrante è un ragazzo che racconta. Un giornalista che lo intervista sottolinea una frase del libro: «Non si può amare qualcuno e rinnegare il suo mondo». Ma è davvero possibile? Per molti no, osserva il giornalista. Ma l’autore ribatte: «Non credo che sia possibile amare qualcuno e non amare anche il suo mondo. Lo ripeto: non si può amare qualcuno e condannare il suo mondo. O rinnegarlo, che è la stessa cosa. Certo, non sto parlando di una condiscendenza totale, incondizionata, nei confronti dell’altro, ma di una comprensione profonda della persona amata».

Ma è davvero possibile?

□ San Giovanni Bosco diceva: «Non basta amare… bisogna che i ragazzi si accorgano di essere amati». E anche: «Bisogna amare ciò che piace ai ragazzi, e i ragazzi ameranno ciò che piace ai loro educatori».
□ Attraverso segni e gesti di tenerezza dobbiamo far capire ai ragazzi che stiamo bene con loro, che li amiamo così come sono, ragazzi in cammino, che si portano addosso una personalità in costruzione e certe loro abitudini, i segni dell’educazione ricevuta o non ricevuta.

Una dolcezza dinamica e piacevole

□ È inevitabile: ogni ragazzo vive nel proprio mondo e manifesta le proprie radici. Ma siamo chiamati ad amarli come li ama Dio, e aiutarli ad aprirsi ai progetti che ha su di loro. Con pacatezza, fermandoci con loro, ascoltandoli, compiacendoci dei passi che riescono a compiere per diventare più positivamente se stessi.
□ Certo, il nostro desiderio è che poco alla volta assumano anche la fisionomia del gruppo, che accolgano i nostri valori. Ma va fatto adottando una dolcezza dinamica e piacevole, creando un ambiente sereno in cui ci si senta a proprio agio, usando anzi all’occorrenza un po’ di humour, affinché sentano che noi li amiamo e che non rifiutiamo il loro mondo.

    Umberto De Vanna